Contest importante e difficile che mira a far conoscere meglio una regione altrettanto importante e difficile: la Lucania.
Ho amato Matera fino all’ultimo dei suo Sassi, delle sue strade, dei suoi colori e delle sue atmosfere dure. E il pensiero è sempre quello di ritornarci, magari d’Inverno.
Eravamo rimasti al racconto di quello che per me è Sapri.
Ora sono proprio qui nel Cilento, in vacanza, come ogni anno e mi viene spontaneo condividere i miei posti di golosità prediletti, sia mai che qualcuno passi da queste parti e si perda una buona occasione per godere del cibo del luogo.
Di posti buoni ce ne sono tanti, per carità. Non potendo metterli tutti ( evitiamo post pletorici in piena estate, quando la voglia di leggere sul pc è pari a quella di stirare a pressione due o tre lavatrici), vi segnalo un paio di tappe obbligate, per chi volesse passare in attività mangereccia i vari momenti della giornata.
Per una colazione variabile dalle 7 del mattino alle 12, per l’acquisto del pane quotidiano, per il cornetto di mezzanotte… c’è il Forno Zicca.
Sarà che conosco le persone che se ne occupano (con amore, credetemi) fin da bambina, sarà che il loro pane del Pescatore ce l’ho nel cuore, sarà per l’odore caldo del pane sfornato e della pizza che si continua a portare a casa ogni volta che si è in quei paraggi, ma quel forno è quello da cui prima o poi si passa. Il pane ai cinque cereali, quello di semola di grano duro, le friselle, i taralli, il babà salato, i rustici vari… Insomma, ogni scusa è buona per recarsi al Forno Zicca. Il venerdì poi, è particolarmente ricco (il Pane del Pescatore esce quel giorno), quindi potete scrivere sulla vostra agenda personale che, alle 8 del mattino di un qualsiasi venerdì: passare da Clotilde e Palmira ( e tutta la famiglia che lavora fra il forno e il punto vendita)
Non di solo pane vive l’uomo.Vero. Chi siamo noi per scordare i salumi, l’olio, il vino, le verdure, le conserve e i formaggi?
La conseguenza perciò è la capatina giornaliera alla Bottega dei Golosi. Era già una certezza prima, figuratevi ora che hanno deciso di allestire uno spazio nella Villa Comunale, proprio di fronte al negozio, dove poter gustare i loro prodotti, fare un aperitivo gourmet e assistere ad eventi e degustazioni a lume di candela. Quindi se siete stanchi dell’aperitivo solito a base di patatine e arachidi di dubbia provenienza, qui potrete gustare del buon vino e (anche le bibite della Lurisia per esempio) accompagnato da pane e broccoletti sott’olio, provolone podolico stagionato in grotta con gelatina di Aglianico, pane con pomodori, alici di menaica e olio del Cilento, torroncini degli sposi e fichi bianchi del Cilento al rum, etc etc. Non so voi, ma un aperitivo così mi dà soddisfazione!
E la coccola serale dove la mettiamo?
Per il gelato però, vi aspetto al prossimo post!
Non sono mai stata in Sardegna e so che una carenza notevole. Non mi preoccupo di aver perso i luoghi “mondani e ben frequentati”: pur bellissimi, mi sembrano riservati ai turisti più che ai sardi.
Mi manca aver visto quei paesaggi riportati indietro dalle foto di mio padre, dune candide, abbaglianti per il loro candore, contrapposte al blu intenso del cielo del mare. Mi mancano i paesi rimasti ben ancorati a quelle tradizioni di secoli, il lato selvaggio della Sardegna, mi manca quella lingua, diversa e a tratti incomprensibile.
Cristian, per l’MT challenge di questo mese, ha scelto una ricetta da far tremar le vene ai polsi. O almeno, far tremare le mie vene e i mie polsi. Il fatto è che ha scelto la tiella di riso patate e cozze…piatto di riso quindi. E, tanto per fugare ogni dubbio, il riso e i piatti che ne possono derivare sono estremamente difficili.
Loro, le ricce, son le mie preferite. Soprattutto calde, col guscio croccante e quel ripieno morbido e ricco mangiato tante volte in mezzo alla strada perché non potevo aspettare di arrivare a casa. Le frolle non le vedevo nemmeno se c’era una riccia una giro. Le ho scoperte dopo, con gli anni (ehhh..la vecchiaia porta saggezza, almeno limitato a questo caso).
Immaginate la scena: in macchina, verso Verona, alla volta del Vinitaly con un gruppo di amici sommelier da incontrare, e che faccio io? “Friggo” sperando che l’i-pad prenda (e io non lo uso mai) per scoprire quale sarà la ricetta di Aprile. Con mio marito sorpresissimo dal mio novello interesse per il tablet che continua a chiedermi “ma che devi vedere?” fin quando io non esclamo “IL CHILI”! “ah, questo è ciò che mangeremo per il prossimo mese?” “Esattamente”. Al che ho chiuso il tablet e mi son messa a pensare. Per l‘MTC di Aprile c’era il chili di Ann.
Ogni tanto i miei hanno il potere di smontare tutti i miei entusiasmi culinari.
Avevo tutto il tempo, tutta la voglia e (quasi) tutti gli ingredienti per preparare ciò che avevo in mente per Pasqua (che come al solito avrei trascorso all’amatissimo paesello paterno, Sapri-ultimo paese della Campania-ndr) quando mio padre, in piena telefonata di prima mattina, quella fatta per sapere come stesse Albertino (sceso precedentemente con loro), mi apostrofa con un “non fare dolci, non fare niente, che qui non possiamo mangiare tanto e basta”. Nessuna possibilità di appello.
Difficilmente è possibile trovare, in fatto di cibo, un matrimonio così riuscito come quello fra la pizza e la mozzarella. E l’hanno capito benissimo tutte quelle persone che organizzano quello che , per me, resta il salone del cibo più bello del sud e fra i primi 3 in Italia: Le strade della Mozzarella.
Al tornar de la mente, che si chiuse
dinanzi a la pietà d’i due cognati,
che di trestizia tutto mi confuse,
novi tormenti e novi tormentati
mi veggio intorno, come ch’io mi mova
e ch’io mi volga, e come che io guati.
Io sono al terzo cerchio, de la piova
etterna, maladetta, fredda e greve;
regola e qualità mai non l’è nova.
Dante è appena uscito dal secondo girone infernale. Sta lentamente riemergendo alla lucidità dopo essere venuto meno in seguito al doloroso e commovente discorso fatto da Francesca e da Paolo: il loro pianto e il loro racconto l’hanno mosso a tal punto di pietà da non riuscire a mantenersi e caddè “come corpo morto cade”.
Rinvenutosi, si trova nel girone dei golosi, quello dove “per la dannosa colpa de la gola”, i dannati sono costretti a giacere col viso rivolto verso la terra, imputridita da grandine, acqua scura e neve. Cerbero, “fiera crudele e diversa”, con le sue tre teste e le mani unghiate, graffia e squarta gli spiriti, e abbaiando rintrona le anime tanto che l’unico desiderio è quello di essere sordi.
Questa è la pena prevista da Dante per coloro che hanno lasciato che i piaceri del cibo sopraffacessero la loro ragione, la loro volontà, che il mangiare diventasse la ragione del vivere.
Il legame fra il cibo e la Divina Commedia è profondo. Lo stesso Boccaccio parlando del rapporto di dante col cibo scrive: “Nel cibo e nel poto fu modestissimo, sì in prenderlo all’ore ordinate e sì in non trapassare il segno della necessità… né alcuna curiosità ebbe mai più in uno che in uno altro: li dilicati lodava e il più si pasceva di grossi, oltre modo biasimando coloro, li quali gran parte del loro studio pongono e in avere le cose elette e quelle fare con somma diligenza apparare, affermando questi cotali non mangiare per vivere, ma più tosto vivere per mangiare”.
Dante quindi, non amava la ricercatezza nel cibo, ma la sobrietà, il mangiare semplice il rispetto delle regole canoniche.
Ricordiamo che viveva in un’epoca in cui erano ben presenti le indicazioni dei padri della Chiesa. La gola era uno dei sette vizi capitali e i dottori della Chiesa avevano una sottile casistica del modo in cui il peccato poteva consumarsi: praepropere laute nimis ardenter studiose (‘mangiando fuoritempo, molto frequentemente’; ‘ricercando cibi prelibati’; ‘eccedendo nella quantità’;‘con soverchia avidità’; ‘esagerando nei condimenti’). Dante sembra tenere molto a queste indicazioni, così come all’abitudine medioevale di mangiare due volte al giorno: la mattina fra le 9 e le 10 (il desinare) e la sera, al tramonto del sole (il cenare). Solo i nobili e i ricchi indulgevano nel mangiare tre volte, introducendo il rito della merenda, insieme alla raffinatezza dei tovagliati, ai buffoni e ai giullari. Tutti artifizi che Dante non approvava.
Eppure quanta pietas nei confronti dei lussuriosi prima e dei golosi poi. Tanto è vero che si ritrovano nei primi due gironi infernali (quelli meno “gravi”) e si ritroveranno, nel purgatorio, nelle ultime due cornici prima di poter accedere al paradiso.
Perché questo lungo discorso su Dante e sul poema sacro dove il Sommo Poeta ha” posto mano cielo e terra”? In un certo senso la “Colpa” (o meglio dire il merito) è della Patty e dell’mtc di questo mese! Mi perdoneranno i dantisti e i puristi della Divina Commedia. Amo Dante anche io e sicuramente l’intenzione non è quella di mescolare il sacro con il profano ma succede che anche una ricetta possa farti ricordare un grande poeta e così d’improvviso farti venire la voglia di andare a investigare sulla cucina di quello specifico periodo. D’altronde credo che ormai gli stessi toscani abbiano fatto il callo all’associazione Toscana-Dante. Pensando così ai pici, ai piatti tradizionali e ad un prodotto slow food ormai quasi scomparso ma molto comune nei secoli addietro mi son trovata a pensare a quale fosse il mangiare di Dante, considerando come spesso tante descrizioni della Divina commedia richiamano il gergo tipico delle ricette. Leggendo un libro interessante e cercando qua e là in rete, di cose se ne trovano molte. E capisci anche come intuizioni, modi di dire e di fare in cucina si siano trasmessi invariati nel corso dei secoli. Fino a quel momento la popolazione più povera mangiava solo pane di orzo e di altri cereali (“biada”) mentre è solo nel perdio di dante che si diffonde , soprattutto per i più ricchi, il “pan degli Angeli” ovvero il pane bianco, pane di frumento. Pian piano la farina di frumento entrerà nella vita della gente fino a diventarne parte integrante, ma ai tempi dante era una rarità.
Ed io, in un pomeriggio piovoso, (come ho capito la piova etterna, maladetta, fredda e greve dantesca!) mi son ritrovata con questi pensieri del cibo medievale e con la voglia di inventarmi del pici. Dopo aver riletto l’inferno della Divina Commedia, mi veniva in mente solo un piatto povero ed umile, con ingredienti un po’ lontani dal nostro quotidiano ma tutti da recuperare. Avevo la roveja di Civita di Cascia , questa sorta di pisello selvatico con sentore di fave e di erbe, usata tuttora in Umbria per molte zuppe, bruschette e, ridotta in farina, come polenta condita con acciughe, aglio e olio. Mi sembrava il momento buono per riprovare dei sapori sicuramente non comuni per noi, ma antichi, non sofisticati dal nostro tenore di vita gastronomico. Il connubio non mi ha certo deluso.
La ricetta dell’impasto dei pici la trovate nel post precedente. In questo caso ho aggiunto 50 g di farina di roveja (ottenuta, banalmente, usande il cutter migliore che avevo e un buon setaccio)..ha assorbito un po’ di acqua in più rispetto al normale impasto, ma nulla di trascendentale (che ci sta bene in questo caso, diciamolo!).
Devo però fare ammenda: mi sono lasciata tentare da un paio di fettine di Lardo di Arnad da aggiungere per insaporire sia la roveja che il condimento a base di cipolla. Credo che, agli occhi di Dante, questo mi costerà qualche secolo in più al Purgatorio, se non una destinazione peggiore….decidete voi cosa rischiare!
Ingredienti
Procedimento
“Cucina di terra e di pane, che amministra il sale e le spezie che massimizza le cotture, quella toscana è una cucina che ragiona ad alta voce.”
Questa frase è nell’introduzione del bel libro La Cucina Toscana dei Calycanthi. Quando l’ho letta ho pensato che “cucina di terra e di pane” fosse la definizione migliore al mondo, per quella cosa straordinaria che è il cibo toscano.