Ma la dovevo postare subito, appena fatta proprio.
Foto prese di sfuggita, come di norma ultimamente. Post scritto al volo, ma che dico scritto, appena accennato, dato che domani Albertino (con me al seguito) fa il solito pit stop ospedaliero, che almeno una volta all’anno noi in ospedale una decina di giorni la vogliamo fare (con la speranza che diventa sempre più una certezza di andare verso il meglio, il suo futuro, con possibilità diverse).
E io non posso che chiamarlo così, questo piatto.
Tutto ha inizio tanto tempo fa, ma proprio tanto. Ero una pischelletta, diremmo a Roma, che si guardava un documentario su Sky. E come sempre accade con i documentari americani, quelli parlano dell’Italia e lo fanno bene. Potrei parlare per ore di quanto mi piacciano i vari programmi /documentari/film sulla cucina esteri e di quanti snobbi quelli italiani ma lasciamo perdere che finirei per creare una luuunga polemica.
Ci risiamo, ci sono ricascata. La ricerca di ricette a base di castagne continua. Prima un piatto salato, poi uno dolce questa volta è il turno di uno dolce-salato: il castagnaccio salato.
Al tornar de la mente, che si chiuse
dinanzi a la pietà d’i due cognati,
che di trestizia tutto mi confuse,
novi tormenti e novi tormentati
mi veggio intorno, come ch’io mi mova
e ch’io mi volga, e come che io guati.
Io sono al terzo cerchio, de la piova
etterna, maladetta, fredda e greve;
regola e qualità mai non l’è nova.
Dante è appena uscito dal secondo girone infernale. Sta lentamente riemergendo alla lucidità dopo essere venuto meno in seguito al doloroso e commovente discorso fatto da Francesca e da Paolo: il loro pianto e il loro racconto l’hanno mosso a tal punto di pietà da non riuscire a mantenersi e caddè “come corpo morto cade”.
Rinvenutosi, si trova nel girone dei golosi, quello dove “per la dannosa colpa de la gola”, i dannati sono costretti a giacere col viso rivolto verso la terra, imputridita da grandine, acqua scura e neve. Cerbero, “fiera crudele e diversa”, con le sue tre teste e le mani unghiate, graffia e squarta gli spiriti, e abbaiando rintrona le anime tanto che l’unico desiderio è quello di essere sordi.
Questa è la pena prevista da Dante per coloro che hanno lasciato che i piaceri del cibo sopraffacessero la loro ragione, la loro volontà, che il mangiare diventasse la ragione del vivere.
Il legame fra il cibo e la Divina Commedia è profondo. Lo stesso Boccaccio parlando del rapporto di dante col cibo scrive: “Nel cibo e nel poto fu modestissimo, sì in prenderlo all’ore ordinate e sì in non trapassare il segno della necessità… né alcuna curiosità ebbe mai più in uno che in uno altro: li dilicati lodava e il più si pasceva di grossi, oltre modo biasimando coloro, li quali gran parte del loro studio pongono e in avere le cose elette e quelle fare con somma diligenza apparare, affermando questi cotali non mangiare per vivere, ma più tosto vivere per mangiare”.
Dante quindi, non amava la ricercatezza nel cibo, ma la sobrietà, il mangiare semplice il rispetto delle regole canoniche.
Ricordiamo che viveva in un’epoca in cui erano ben presenti le indicazioni dei padri della Chiesa. La gola era uno dei sette vizi capitali e i dottori della Chiesa avevano una sottile casistica del modo in cui il peccato poteva consumarsi: praepropere laute nimis ardenter studiose (‘mangiando fuoritempo, molto frequentemente’; ‘ricercando cibi prelibati’; ‘eccedendo nella quantità’;‘con soverchia avidità’; ‘esagerando nei condimenti’). Dante sembra tenere molto a queste indicazioni, così come all’abitudine medioevale di mangiare due volte al giorno: la mattina fra le 9 e le 10 (il desinare) e la sera, al tramonto del sole (il cenare). Solo i nobili e i ricchi indulgevano nel mangiare tre volte, introducendo il rito della merenda, insieme alla raffinatezza dei tovagliati, ai buffoni e ai giullari. Tutti artifizi che Dante non approvava.
Eppure quanta pietas nei confronti dei lussuriosi prima e dei golosi poi. Tanto è vero che si ritrovano nei primi due gironi infernali (quelli meno “gravi”) e si ritroveranno, nel purgatorio, nelle ultime due cornici prima di poter accedere al paradiso.
Perché questo lungo discorso su Dante e sul poema sacro dove il Sommo Poeta ha” posto mano cielo e terra”? In un certo senso la “Colpa” (o meglio dire il merito) è della Patty e dell’mtc di questo mese! Mi perdoneranno i dantisti e i puristi della Divina Commedia. Amo Dante anche io e sicuramente l’intenzione non è quella di mescolare il sacro con il profano ma succede che anche una ricetta possa farti ricordare un grande poeta e così d’improvviso farti venire la voglia di andare a investigare sulla cucina di quello specifico periodo. D’altronde credo che ormai gli stessi toscani abbiano fatto il callo all’associazione Toscana-Dante. Pensando così ai pici, ai piatti tradizionali e ad un prodotto slow food ormai quasi scomparso ma molto comune nei secoli addietro mi son trovata a pensare a quale fosse il mangiare di Dante, considerando come spesso tante descrizioni della Divina commedia richiamano il gergo tipico delle ricette. Leggendo un libro interessante e cercando qua e là in rete, di cose se ne trovano molte. E capisci anche come intuizioni, modi di dire e di fare in cucina si siano trasmessi invariati nel corso dei secoli. Fino a quel momento la popolazione più povera mangiava solo pane di orzo e di altri cereali (“biada”) mentre è solo nel perdio di dante che si diffonde , soprattutto per i più ricchi, il “pan degli Angeli” ovvero il pane bianco, pane di frumento. Pian piano la farina di frumento entrerà nella vita della gente fino a diventarne parte integrante, ma ai tempi dante era una rarità.
Ed io, in un pomeriggio piovoso, (come ho capito la piova etterna, maladetta, fredda e greve dantesca!) mi son ritrovata con questi pensieri del cibo medievale e con la voglia di inventarmi del pici. Dopo aver riletto l’inferno della Divina Commedia, mi veniva in mente solo un piatto povero ed umile, con ingredienti un po’ lontani dal nostro quotidiano ma tutti da recuperare. Avevo la roveja di Civita di Cascia , questa sorta di pisello selvatico con sentore di fave e di erbe, usata tuttora in Umbria per molte zuppe, bruschette e, ridotta in farina, come polenta condita con acciughe, aglio e olio. Mi sembrava il momento buono per riprovare dei sapori sicuramente non comuni per noi, ma antichi, non sofisticati dal nostro tenore di vita gastronomico. Il connubio non mi ha certo deluso.
La ricetta dell’impasto dei pici la trovate nel post precedente. In questo caso ho aggiunto 50 g di farina di roveja (ottenuta, banalmente, usande il cutter migliore che avevo e un buon setaccio)..ha assorbito un po’ di acqua in più rispetto al normale impasto, ma nulla di trascendentale (che ci sta bene in questo caso, diciamolo!).
Devo però fare ammenda: mi sono lasciata tentare da un paio di fettine di Lardo di Arnad da aggiungere per insaporire sia la roveja che il condimento a base di cipolla. Credo che, agli occhi di Dante, questo mi costerà qualche secolo in più al Purgatorio, se non una destinazione peggiore….decidete voi cosa rischiare!
Ingredienti
Procedimento
“Cucina di terra e di pane, che amministra il sale e le spezie che massimizza le cotture, quella toscana è una cucina che ragiona ad alta voce.”
Questa frase è nell’introduzione del bel libro La Cucina Toscana dei Calycanthi. Quando l’ho letta ho pensato che “cucina di terra e di pane” fosse la definizione migliore al mondo, per quella cosa straordinaria che è il cibo toscano.
I libri di Claudio Martini Editore sono davvero molto belli. E non lo dico perché Claudio è un caro amico, conosciuto in occasione di questo bellissimo contest (vi invito a guardare tutte le ricette in gara perché alcuni post erano davvero da incorniciare)…lo dico perché sono libri che ti danno sempre qualcosa in più della semplice ricetta. Raccontano storie, passioni, tradizioni arte e, anche. ricette. Ma non solo.
Dopo un post canterino di una certa rilevanza, volete che non vi aggiorni sulle ultime novità in fatto di musica, dettate direttamente dall’esperta di casa, sempre più brava nello scovare pezzi d’autore? In realtà sto cominciando seriamente a preoccuparmi, stavolta l’ho scampata bella ma non credo che potrò resistere a lungo. Scena solita (ormai ce l’avete stampata nella memoria): io che mi accingo a scrivere qualcosa al pc (tanto per cambiare, una ricetta) e la Pasionaria che, neanche faccio in tempo a sedermi che subito mi fa la sua prima richiesta musicale (per lei, pc = jukebox):” Mamma, mi metti PEIPON?”
Anni fa , non ricordo dove fossi, vidi la copertina di un libro che mi colpì profondamente: fondo nero e, su un’alzatina trasparente, delle splendide pesche di prato. La scena era tutta per loro: erano semplicemente perfette. In molte pasticcerie si trovavano (e si trovano) le pesche (la denominazione “di Prato” non viene quasi mai aggiunta qui a Roma)…ma si vedeva lontano un miglio quanto quelle della copertina fossero diverse. Ho sfogliato quel libro velocemente, ricordo che avevo pochissimo tempo. Poi all’epoca non avevo ancora la passione per tutti i libri di cucina..quindi lasciai il libro. Me ne sono pentita quasi subito, anche perché non l’ho più ritrovato. Potete quindi immaginare cosa ho provato quando me lo sono ritrovata fra le mani, complice la partecipazione al contest di Simona, cib’arte.