Che l’estate sia fonte, per me, di situazioni tragicomiche, lo sapevamo.
Non so, mi accadano sempre cose (cose che fanno i miei figli) che capire se ridere o piangere, o ridere e piangere, già sarebbe un bel progresso.
Il leitmotiv di quest’anno è stato che la piccola di casa tanto più piccola non è. Lei, La Pasionaria, ha compiuto otto anni. Si avvicina pericolosamente alla soglia dei dodici, che ogni genitore di figlie femmine sa essere uno dei momenti più drammatici della vita. Ma mancano ancora quattro anni e voglio godermeli.
E, a dire la verità, io ci riesco piuttosto bene, perché quest’anno mi sono fatta tante di quelle risate che mai avrei immaginato.
Dunque, l’antefatto era che l’anno scorso La Pasionaria e Albertino si erano fatti un nutrito gruppo di amici e amiche che vedevano la sera al parco, fra un giro in altalena e un nascondino veloce. La cosa interessante era la presenza di due gemelli, che chiameremo convenzionalmente Carlo e Francesco. Tali gemelli assurgevano a prediletti de La Pasionaria, che le prime sere tornava a casa molto sconsolata dichiarando che non sapesse scegliere fra l’uno e l’altro. La vita è dura, rispondevo io.
Alla fine dell’estate sembrava che la preferenza fosse stata accordata a quello che convenzionalmente chiameremo Francesco, tanto è vero che, sotto lo sguardo di un preoccupatissimo padre, ogni tanto lei e lui giravano nel parco mano nella mano. Ma l’estate finì presto e facemmo finta di non vedere.
Quest’anno, appena arrivati lei ha subito cominciato a sporgere la testa, a guardare i ragazzini che passavano ma di Carlo e Francesco neanche l’ombra. E questo per quasi tutta la vacanza. Ma, a due giorni dalla fine, quello che convenzionalmente chiameremo Francesco, appare a cavallo della sua bicicletta pronunciando un romanticissimo “oh ciao, dai che domani ci vediamo”.
La pasionaria si gira e mi guarda. Mi guarda e sorride imbarazzata. La guardo e sorrido e basta. Il padre mi guarda e non sorride affatto. “Dai su, che sono bambini, lui ha dodici anni”. La cosa non deve averlo tranquillizzato dato che un ringhio sottile ma deciso usciva dalle sue labbra.
Comunque, mancavano solo due giorni e saremmo andati via.
Il giorno dopo, di pomeriggio, mio marito (che convenzionalmente chiameremo Il padre) esce per sbrigare alcune commissioni. Io ero a casa con i bambini e stiravo le cose da mettere in valigia (sì, lo so, non mi dite niente). Suona il citofono e vado a rispondere con una certa curiosità, dato che non aspettavo nessuno. “Siamo venuti a trovare La Pasionaria”,mi dicono due voci in coro. Non Albertino, badate bene, ma proprio La pasionaria.
“Prego, salite”. E che altro potevo fare? In effetti ai miei tempi difficilmente avrei suonato al citofono di un mio amico. E se proprio, avrei chiesto gentilmente il permesso di poterci parlare. I gemelli invece si sono praticamente autoinvitati a casa nostra, con il proposito di venire a trovare una Pasionaria che, capita la portata della visita, ha tirato su la testa, si è rimessa il cerchietto, ha aperto la porta ed è volata giù per le scale ad accoglierli. E io non vedevo l’ora che tornasse il padre.
I gemelli sono saliti e sono stati accolti in cucina. Mentre li faceva passare, lungo il corridoio lei si è girata sibilandomi un “faccio tutto io”.
Il tutto comprendeva versare tre bicchieri di aranciata e riempire altri tre bicchieri di gelato (roba che la sera per farle mettere in ordine qualsiasi cosa, sono lotte). Loro erano lì, che facevano battute mediamente cretine, mentre lei rideva con precisione matematica. E io non vedevo l’ora che tornasse il padre.
Questo desiderio è stato esaurito perché ho sentito una chiave aprire una porta.
“abbiamo ospiti” ho detto io come benvenuto. Allo sguardo interrogativo ho risposto “Carlo e Francesco, sono venuti espressamente a trovarla”.
Lo sguardo del Padre, signori miei, mi ha ripagata di tutti i dolori del parto. Orrore e sconcerto. Tanto più orrore e sconcerto quando ha saputo che al prediletto Francesco Lei aveva offerto (in più) il suo pacchetto di patatine preferite e che aveva fatto tenere il suo gatto in braccio.
Ma nulla a confronto dello sguardo successivo. E’ stato tutto molto veloce. I tre hanno deciso di giocare a nascondino: Carlo avrebbe contato e loro due si sarebbero nascosti. Nel momento in cui io mi affannavo a spiegare al Padre che avevamo ospiti, La pasionaria e Francesco scappavano nella stanza dove si trovava Albertino (a giocare con play station). Scappavano talmente veloci che, evidentemente, avevano la necessità di tenersi per mano e sono praticamente andati a sbattere contro il Padre che si è messo di lato in tempo per: a) lasciarli passare e b) vedere la scena.
I due volano in camera mentre il Padre si gira con occhi spiritati e mi dice, muovendo solo la bocca, scandendo bene e facendo uscire un filo di voce “si davano la mano!!”
Sono scoppiata a ridere, non potevo resistere. Gongolavo. “io non le ho mai fatte queste cose” “e che le deve fare lei???”
La risata compulsiva aveva preso il sopravvento. La Pasionaria ora si trovava sul balcone e giocava a carte con Francesco mentre iL padre infilava la testa per guardare lei che, contemporaneamente, mi l faceva segni di sparire. Il tenore dello sguardo e delle parole di mio marito ricordava tanto una scena di Bad boys.
Cosa dovrei raccontarvi di più? Che si sono salutati con un bacio sulla guancia? Che la sera si sono rivisti alle giostre e che lui ha invitato lei a salire sul retro della bicicletta, ricevendo un secco no da parte del Padre, il quale asseriva che erano giochi pericolosi? Che sulla via del ritorno, dopo tale rifiuto, lui ci ha seguiti in bici, raccontando di come avesse fatto saltare la corrente del nuovo cinema, riuscendo a staccare gli interruttori? Di come Il Padre abbia commentato “Pure un teppista” con i soliti occhi spiratati?
No, vi racconterò del nostro piatto dell’estate,argomento meno spinoso e più utile alla gola!
Dunque, il sugo all’Imperatora. Mia madre fa questo sughetto da tanti anni, e cioè da quando lo vide su un di quei vecchi ricettari che girano in tutte le case italiani, quelli di carta non troppo bianca, senza figure e al massimo con qualche disegno mal fatto. Ma con ricette di sicura riuscita. Nessuno di noi riesce a trovare quel libro o a ricordarsi come si chiami e quindi perdonatemi se non posso essere più precisa nella citazione. Ma sappiate che p farina del sacco altrui.
Ho sempre pensato (con un grande sforzo di fantasia) che il nome imperatora fosse collegato all’ alloro presente. Poi metteteci anche la presenza della cannella e il senso della cucina rinascimentale c’è.
Con questo sugo potete condirci della pasta secca o della pasta fresca, la classica con acqua e farina (io ho usata quella). A casa mia ci sono due partiti: quelli che terminano con pecorino (i più, fra cui io) e quelli che rifiniscono con parmigiano. Continuo a sostenere che un buon pecorino sia la morte sua.
Ingredienti
Procedimento
Le voglio bene davvero, alla nostra Flavia. L’ho vista una sola volta ma ancora ho nelle orecchie la sua risata contagiosa e il modo divertente e istrionico di raccontare le cose. Stai lì con la bocca un po’ aperta ad aspettare che il racconto prosegua. E non è che lei ti faccia attendere, perché è un fiume in piena e quindi sei tu che devi fare lo sforzo di far girare il cervello velocemente, per tentare di starle dietro.
Il sedano rapa, questo sconosciuto. La leggenda vuole che sia usatissimo dalla brava foodblogger, che ne conosca usi, costumi e tradizioni, lingua d’origine e regime sanitario.
Io invece nulla. Ne avevo solo sentito parlare e quindi avevo catalogato “sto coso strano” fra le meraviglie esotiche. Ed ecco che mia suocera mi regala un sedano rapa e me lo ritrovo nella mia cucina insieme ad una graziosa zucca.
Oggi, ricetta per un contest interessante: “dolcemente salato” di Emanuela di Arricciaspiccia, in collaborazione con l’azienda agricola Mariangela Prunotto e con Claudio Sadler come “Giudice Supremo”.
Mi piaceva l’idea di assaggiare, in particolare la gelatina di Dolcetto e la gelatina di balsamico (sarà che amo entrambi..) e poi dovevo creare una ricetta salata.
“Cucina di terra e di pane, che amministra il sale e le spezie che massimizza le cotture, quella toscana è una cucina che ragiona ad alta voce.”
Questa frase è nell’introduzione del bel libro La Cucina Toscana dei Calycanthi. Quando l’ho letta ho pensato che “cucina di terra e di pane” fosse la definizione migliore al mondo, per quella cosa straordinaria che è il cibo toscano.
Maria Carolina d’Austria, tredicesima figlia di Maria Teresa D’ Asburgo, sposò nel 1768 Ferdinando I di Borbone, per rafforzare l’alleanza austriaca con la Spagna, governata dal padre di Ferdinando, Carlo III. In realtà ne lei era la sposa designata (doveva essere la sorella maggiore, che morì prematuramente di vaiolo) ne lui doveva essere l’erede al trono essendo terzogenito ma una serie di circostanze sfortunate li portarono alle nozze: lei bella, colta, raffinata e figlia di una delle donne con più senso politico della storia, lui con un’educazione rozza, poco curata, non bello (per il suo naso a forma di bolla era famoso per essere chiamato Re Nasone), abbastanza indolente ma di buon senso. Oggi diremmo una coppia malassortita, che ebbe però 18 figli (di cui solo 7 viventi) e che portò numerose riforme nel Regno (come la revoca del divieto delle associazioni massoniche), seguendo l’inclinazione di Maria Carolina verso l’Assolutismo Illuminato.
Maria Carolina prese in mano le redini del Regno, soprattutto dopo la nascita del primo figlio maschio (una clausola del Matrimonio, voluta da Maria Teresa, prevedeva che la regina entrasse nel consiglio di Stato dopo la nascita dell’erede al trono) . La Regina viene anche considerata una femminista ante litteram, essendo la promotrice del Codice Leuciano, in cui si prevedeva grande attenzione al ruolo della donna, tanto da sancirne l’uguaglianza con l’uomo. Non fu molto popolare, forse perchè il suo scopo era quello di trasformare il Regno in una base nel Mediterraneo per l’Austria o forse perchè tutte le riforme e le leggi non erano per il popolo ma per la sua ambizione.
Perchè vi parlo di Maria Carolina? Perchè questa donna è una figura fondamentale (e inconsapevole) per la storia e la tradizione della cucina italiana e in particolare per la cucina campana e siciliana. Infatti, quando si sposò, Carolina introdusse con insistenza i cuochi francesi, simbolo di eleganza e ricchezza, all’interno della corte borbonica, dando impulso all’ingresso della figura del Monzù nella case di tutti i nobili del regno. Il Monzù (Monsù in siciliano..e ne riparleremo), traduzione dialettale di Monsiuer, era molto più di un cuoco. Aveva un ruolo riconosciuto all’interno della casa, come artista che aumentava il prestigio della famiglia. L’arrivo del Monzù e delle ricette della cucina francese diede avvio alla fusione dei capisaldi della cucina d’oltrealpe con la tradizionale cucina campana e siciliana, con i risultati che noi fortunati possiamo gustare ancora oggi.
La storia dei Monzù è per me davvero interessante. Se penso al Monzù, il primo piatto (o capolavoro che dir si voglia) che mi veine in mente è il Timballo di pasta: ricco, succulento e esteticamente appagante rappresenta benissimo la necessità di stupire gli ospiti di una cena nobile. Ne parlavo poco tempo fa con Luciano Pignataro e gli ho chiesto una ricetta che ritenesse affidabile. Lui mi ha gentilmente inviato una nota di Raffaele Bracale, nota in cui è riportata una ricetta che non mi aspettavo : un timballo (o timpano) di pasta in bianco, senza sugo e con molte verdure, patate e formaggio. Dovevo provarlo e questo è il risultato. Vi lascio la ricetta anche perchè mi sembra adattassima per queste feste di inzio anno. Tra le cose molto interessanti che scrive su questo timpano con ragù di ortaglie, Raffaele Bracale conclude la sua nota con una frase”
“Mangia Napoli, bbona salute! E scialàteve!”
E per me quello “scialateve” è bellissimo!Ha un mondo di significato dietro, come spesso accade alle parole dialettali napoletane! E’ usatissimo nella famiglia di mio padre e lo uso anche io …diciamo che mangiando questo timballo l’espressione più adatta è “mi sto scialando”!
RICETTA: IL TIMBALLO ALLA MANIERA DEL MONZU’ (versione campana)
Ingredienti (per 6 persone)
Procedimento
In una pentola alta unire olio, aglio, carote, patate e zucchine mondate ed affettate. Aggiungere cipolle , sedano, basilico ed una presa di sale grosso. Lasciate stufare il tutto per circa venti minuti.Alla fine unire il macinato, bagnare con una tazza da tè d’acqua bollente e lasciar cuocere per altri quindici minuti; aggiustare di sale e pepe rimestando benissimo. Lessare molto al dente la pasta in acqua salata (pugno di sale grosso) ed aggiungerla allo stufato di ortaglie e manzo cosí ottenuto. Aggiungere i cubetti di salame, rimestare e mantecare a mezza fiamma con due cucchiai di burro ed il formaggio pecorino grattugiato finemente. Verniciare ed ingranire con un po’ di burro e con il pane grattugiato fondo e parete di uno stampo alto a calotta sferica, formare un primo strato di pasta condita ed aggiungete uno strato di fiordilatte o di provola a fettoline; formare un secondo strato di pasta condita,pressare un poco la pasta e spolverizzare di pane grattugiato, aggiungere alcuni fiocchetti di burro ed infornare in forno caldo a circa 180° per 15/20 minuti, lasciare gratinare per qualche minuto prima di servire ben caldo.
Vini: Corposi vini rossi campani (Solopaca, Aglianico, Piedirosso,Campi Flegrei d.o.c., Taurasi), stappati un’ora prima di usarli, possibilmente scaraffati e serviti a temperatura ambiente (Se Luciano avesse, per il vino, ulteriori suggerimenti sarò lieta di aggiungerli… :D )
E infatti…ecco la proposta di Luciano per il vino : Exultet 2006 di Quintodecimo o il Vigna della Congregazione 2005 di Vigna Diamante!!!!